Nel
1966, il professore D'Amico, vicino di pianerottolo e amico di mio
padre, mi comunicò alla fine della quotidiana ripetizione di
inglese, di comunicare a casa che si era deciso a venderla. Ormai
settantenne, non la portava più a spasso nemmeno la domenica. La
Giulietta, posteggiata sotto casa, la salutavo ogni giorno rientrando
da scuola e poi dall'alto infilando la testa tra la penultima e
l'ultima barra del balcone. Era proprio nuova e rossa, non sembrava
certo un'auto d'epoca. Piuttosto era il professore D'Amico che
sembrava un uomo d'epoca, con la sua veste da camera bluvelluto con
cordoncino intrecciato e pendaglio di raso, la giacca di cachemire
quadrettato fogliasecca, i capelli gonfi, riccioluti, biancobambagia.
Mio padre impiegò una settimana prima di declinare l'amichevole
prelazione. Sudava come una bestia e capimmo, mio fratello e io, che
ci odiava perché rappresentavamo l'unico ostacolo con le nostre
gambette già ingombranti anche per una 2 + 2 (che Giulietta nemmeno
lo era). Alla sua scomparsa mi accontentai di una Politoys in
scala1:41. Da grande persi la testa per il culetto basculante di una
duetto spider codatonda. Red Juliet.
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