Massimo
Fagioli sosteneva, contro Alberoni, che il piacere vero non è
l'amore né tanto meno l'innamoramento, piuttosto il grattarsi per
liberarsi dal prurito, la minzione o la sua solida sorella, questi
sì, piaceri pieni e assoluti. Fallimentari categorie aristoteliche,
avrebbe replicato Francesco Bacone, “oscuri idoli di una qualche
sotterranea spelonca”, la storia di fatti particolari elevati a
universale. Fagioli trascurava la complessità: il cruccio e
l'inganno, la fatica dello scalatore, il terrore e il tremore
kierkegaardiano, la concentrazione dello scacchista che trasferisce
il cervello nello stomaco: niente affatto nemici del piacere, al
contrario, suo carburante naturale, potenziato da naturali, spesso
incalcolati, additivi. Trascurava che la durata pensierosa - opposta
alla “tetra meccanica dell'atto sessuale”, come conciava Gadda,
che sfocia dopo tanto lavorare e sudare nel minimum eiauculatorio - è
il diesel del piacere.
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