Stava
giusto pensando di non avere mai visto una luna più bella, quando ha
investito l'uomo. Per un momento, dopo il tonfo, ha pensato ancora
alla luna ma poi ha smesso di colpo, come una candela spenta da un
soffio. Sente la porta della jeep aprirsi e sa di essere lui ad
aprirla, sa di essere lui quello che sta uscendo. Ma questa
consapevolezza è legata al suo corpo solo vagamente, come la lingua
che passa sulle gengive appena dopo l'anestesia: tutto è lì, ma
diverso. I piedi calpestano la ghiaietta del deserto e lui sente il
rumore di ogni passo. Il suono gli ricorda che sta davvero
camminando. Da qualche parte, in fondo al prossimo passo, lo attende
l'uomo che ha investito; da dove si trova non lo può vedere, ma è
lì, ancora un passo ed è lì. Il piede è già sollevato e
rallenta, cerca di protrarre il prossimo passo, quello definitivo,
dopo il quale non resterà altra scelta. Dovrà guardare l'uomo
disteso al bordo della strada. Se solo potesse congelare quel passo,
ma ovviamente non lo si può congelare, come non si può congelare il
momento che lo ha preceduto, il momento preciso in cui la jeep ha
colpito l'uomo, ovvero il momento preciso in cui l'uomo alla guida ha
colpito l'uomo a piedi. L'uomo a piedi. Solo il prossimo passo
rivelerà se è ancora un uomo o già altro, una parola che solo a
pensarla gli si congela in aria, a metà passo, perché forse
finendolo scoprirà che l'uomo a piedi non è più un uomo a piedi,
non è più un uomo, è solo un guscio d'uomo, un guscio incrinato,
senza più uomo. E se l'uomo a terra non è più un uomo, è
difficile dire cosa ne sarà dell'uomo in piedi, tremante, che non
riesce a portare a termine un unico semplice passo. (Ayelet
Gundar-Goshen, Svegliare i leoni, Giuntina, 2017)
Paul
fece un passo in avanti sulla curva e fu investito da un camion.
Dapprima non si rese conto di cosa l'avesse investito, ma adesso,
sulla schiena, sotto il camion, non ci potevano essere dubbi. Sono
io? Si domandò. Me ne sono andato dalla terra e sono venuto qui?
Appena fu investito, e mentre stava ancora rimbalzando di fronte al
camion e poi sotto le ruote, in una specie di balletto
d'avanspettacolo di pena e terrore, ebbe un pensiero: era già
successo. Il collo si era spezzato, un improvviso balenio di luce e
una vampata percorse rumorosamente la sua nuca. Caldo – quasi
fragrante – dolore: questo sì era una novità. Sentì che era il
posto dove era ritornato... “Stramaledetto pazzo mi si è messo
davanti senza riguardi all'improvviso così tanto per farlo!” La
voce, in qualche modo familiare, gutturale, tuttavia in falsetto,
veniva dall'alto sulla sua destra. Della gente si era radunata per
osservarlo, scuotendo la testa. Si sentì come un prescelto. Cercò
di girare la testa verso la voce, ma il collo gli ridiventò
bollente. Le cose erano davvero brutte. Meglio starsene fermi e stesi
senza prendere iniziative. In tutti i modi, in quel momento, vide,
proprio con la coda dell'occhio, la cabina del camion, rossa come il
rimorchio, e la grossa testa del conducente che si agitava nel sole
fuori dal finestrino. Il camionista portava un piccolo cappello di
tweed, troppo piccolo in effetti: stava appena appoggiato in cima
alla sua testa. (Robert Coover, La babysitter, Guanda, 1982)
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