“Irrisolto” è l’ultimo
aggettivo con cui vorremmo avere a che fare. Inevitabilmente la radice porta al passo successivo:
Irrimediabile, e questa, alla parola Immortale, che di per sé non è poi grande
cosa tranne nel caso di “qualcuno che ragioni sulla sua propria immortalità”.
Una prigione che non si aprirà mai. Pierre de Fermat, matematico, nel 1630,
scoprì l’equazione senza soluzione e Marco Flaminio Rufo, venuto alla Città
degli Immortali, racconta di scale che non portano da nessuna parte, di porte enormi
che si aprono su stanza piccolissime, di finestre irraggiungibili. A Bagdad si
favoleggia di una partita a scacchi durata trentanni (il cui esito, tra
l’altro, si risolse in parità) e “irrisolto” è anche il motivo per il quale nei
bassifondi di Tripoli, negli anni 50, una donna costringeva l’unico figlio a
cenare soltanto dopo che avesse risolto un enigma. A undici anni accadde
l’irrimediabile: ne trovarono il corpo parzialmente sbranato (come da cani, si
disse) in cucina. Del figlio non c’era più traccia.
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