La
prima scena è questa: due smandrappati ladruncoli rubano a Soho la
scultura di una smandrappata artista che ha rinchiuso in cartapesta
il corpo di Paul
Hackett (Griffin Dunne), bancario smandrappato.
Finisce che lo scaricano, senza accorgersene e rompendolo, dopo una
notte pluviale e fuori orario, davanti la sua banca. L'altra scena
che precede la prima risale al 1970: “Nell'ufficio della Hawk Films
un enorme fallo bianco rifletteva la luce proveniente dal soffitto.
Di fianco, due ragazzi lo guardavano immobili. Erano le nove e mezzo
di sera. Fuori pioveva, avevo freddo e volevo tornare a casa. Giravo
per Londra da oltre diciotto ore e adesso scoprivo che ad spettarmi
per l'ultima urgente consegna c'era un grosso fallo di porcellana. -
Ragazzi – li riscossi – mi date una mano voi a portare questo
affare? Lo trasportammo fino alla Minx ma, come temevo, non entrava
nel bagagliaio. Adagiammo il fallo sul sedile anteriore. La punta
sporgeva dal finestrino: ragazzi, non avreste mica una coperta?”.
E' l'inizio di “Stanley Kubrick e me” (Il Saggiatore), scritto
con sviscerato amore e sedimentata emozione da Emilio D'Alessandro,
autista e poi insostituibile assistente di Kubrick. Senza quel
gigantesco fallo bianco, che Emilio trasportò sulla sua Ford Capri,
l'arancia non sarebbe mai diventata meccanica.
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