Perché
un film appaia prodigioso ai suoi spettatori, il primo elemento
indispensabile è che questi ultimi possano credere ai prodigi che
vengono loro svelati. L'unico modo è smetterla, con il ripugnante
ritmo cinematografico attuale, con questa retorica convenzionale e
noiosa del movimento della telecamera. Come si può, anche per un
secondo, credere al più banale dei melodrammi, quando la telecamera
segue l'assassino dappertutto in travelling, finanche dentro i
bagni dove va a lavarsi il sangue che gli macchia le mani? Questo è
il motivo per cui Salvador Dalì, prima ancora di cominciare a girare
il suo film, si preoccuperà di immobilizzare, di inchiodare la sua
telecamera al suolo con dei chiodi come Gesù Cristo sulla croce. Chi
se ne frega se l'azione fuoriesce dall'inquadratura! Il pubblico
aspetterà angoscioso, esasperato, ansioso, ansimante, scalpitante,
estasiato, o meglio ancora, annoiato, che l'azione torni in campo. A
meno che immagini belle e del tutto estranee all'azione lo
distrarranno sfilando davanti lo sguardo immobile, incatenato,
iperstatico della telecamera daliniana restituita finalmente al suo
vero oggetto, schiava della mia prodigiosa, impietosa immaginazione.
Salvador
Dalì, La droga sono io, Castelvecchi 2007
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