1.Narrare
un quadro è una tipica deformazione letteraria. Occorrerebbe
prescindere dalla narrazione, anche quando questa è esibita con
martellante insistenza. 2. Il vieto simbolismo del Trionfo della
Morte sarebbe da ricordare, non per una sua decifrazione storica e
accumulo di riferimenti (lebbrosari, pestenera, apocalissi), ma per
la sua ambiguità e erroneità: lo sguardo è ambiguo e erroneo. 3.
La risata autofaga della morte, proprio nella sua compulsione
scenografica di risata mortale eccita e corrompe. Cosa allude cosa?
Quello che nella morte la consunzione rivela è uno scheletro
gioviale e dissoluto. Poche morti hanno un'allegrezza così esplosiva
come quella che galoppa a Palazzo Abatellis. Alcune, al contrario,
munite di tetre dentiere (v. Il Trionfo della Morte, Scuola Senese
del XIV sec). 4. Ma la narrazione si impone liberatoria. Si narra del
dito bislungo del suonatore d'arpa, poggiato alla fonte. Anche la
sovrapposizione degli stili e il vociare delle mani ribadiscono il
concetto: non esistono buoni quadri ma universi di irrelate
reciprocazie. Si narra il cavallo mezzo di pietra e mezzo di ossa,
mezzo di corsa e mezzo fermo che fa da piedistallo alla morte
giullaresca. Si narra che è difficile fotografare l'irrequieto
affresco (dimensioni, luci, distanza) ma anche che è più difficile
osservarlo dal vero e che conviene riproporlo più tardi alla
memoria, portarlo a casa. Ci sono certe leggi dello sguardo da
rispettare: un quadro, in qualche modo, va rubato. 5. A Palazzo
Abatellis un vecchio cronopio, da tempo abitudinario di quei gironi,
staccò dalla parete il 'suo' trittico fiammingo, se lo mise
sottobraccio, tentò di guadagnare l'uscita: mai un canu a
taliarillu, m'attocca. (Palermo, 1976)
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