L’azione più
intelligente che un’amante fa, dopo avere copulato con l’amato la
prima volta, è infilarsi il suo maglione, o un indumento
equipollente (pur che l’amante non sia di stazza doppia dell’amato,
ma par capiti di rado) e abbracciarselo e strusciarselo come
sembiante, in vece del suo corpo, scomposto e grippato sull’angolo
di un divano, o aggrovigliato nelle crude lenzuola di un albergo, o
ammanettato alle barre della testata del letto. Posto che l’amato
sia amato e non amante, sia cioè per la polizia matrimoniale,
ancora, marito osservante, ciò che succede dopo, causa quest’atto
di proditorio irretimento, dio ne scampi. Capita appena dopo,
infatti, quando l’amato infila l’altra chiave nell’altra toppa,
quella della porta di casa, che si risvegli in lui lo stordito senso
dell’olfatto. Quanto l’aveva beato nel vortice del piacere, e
nella continuazione di esso come suo correlativo (il profumo
arcichimico di lei), lì si materializza e si rivela trappola ad
orologeria. Ormai è già in casa, sente i passi dei famigli in
agguato, e gli effluvi del suo maglione spandersi come pipì di gatto
a marca del territorio. Si abbandona sulla poltrona, fingendo
sfinimento (senonché sfinito lo è davvero, e non soltanto per gli
esercizi di ginnastica straordinaria, ma per l’accelerazione
brutale subita dalle sinapsi in cerca di un’arrangiamento
convincente, di una difesa all’attacco, ecc.) ed erogando parole a
fluvio, per tema di una domanda, di un’osservazione che ponga la
questione di quel nuovo estraneo in casa, che in casa qualcuno ha
portato da fuori (qualcuno chi? non lui). Al postutto, quando
l’atmosfera si è placata e, complice, pare abbia risucchiato gli
atomi fedigrafi, la consorte gli si avvicina e spiaccicandogli in
fronte un bacio consolatorio lo invita a un drink per la ripresa, lui
ha l’improntitudine, il convincimento, la sicumera di
tranquillizzarsi pensando: se mi invita non se ne è accorta. Ma se
ne è accorta.
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