Sono stato contrario
al ponte sullo stretto. Per difendere il concetto di isola e tenere
alta la guardia tra Sicilia e Resto. Da quando i siciliani ingolfano
Roma sin dalla testa del pesce, da quando la defunta fiera del
mediterraneo di palermo è diventata il lunapark di expo-milano,
capisco che non c'è più paese, che tutto è paese, è isola e
allora. Allora, che bellezza affacciarsi dalle finestre di Messina e
vedere i gabbiani accoppiarsi sulle ornate di un ponte ferroso e
immobile, sfottuto delle scorrerie argentee delle correnti. L'italia,
l'isola, è ormai un paese incapace di committenze, solo garbugli
politici, ritardi magistrali, merda affiorante dai pavimenti di
Rebibbia. Un ponte non ci salverebbe ma ci aiuterebbe a capire che le
grandi opere che hanno fatto di questo paese quello che tutti dicono
ma che nessun governo sa vendere, dovrebbero riprendere a riprodursi.
In culo agli ambientalisti e a chi considera l'arte imitazione e non
invenzione della natura. Hart Crane sì è annegato per amore della
meravigliosa religione dell'artifex, ha lasciato un poema che non è
spirituale, ma un ringraziamento all'umanità manuale che ha
realizzato il ponte di Brooklin. Nessuno qui in Sicilia, o in Italia
che è uguale, pensa più ad affidare a artisti o architetti piccole
o grandi opere. Le gestiscono le mortificano le abortiscono politici
e il loro braccio armato, cioé magistrati e burocrati. Il ponte
sullo stretto di Messina, per quanto così piccolo rispetto a quello
di Brooklin, potrebbe essere un grande poema che l'Italia-Sicilia,
regalerà a se stessa. Naturalmente con l'accortezza di non
affidarne il progetto al quel rovinachiese circense di renzo piano.
TO BROOKLYN BRIDGE
Per quante albe,
mentre si sveglia gelido dal suo
sonno ondeggiante,
le ali del gabbiano
lo faranno tuffare
e roteare, e spargeranno attorno
circoli bianchi di
tumulto, e leveranno alta
la Libertà, sopra
le incatenate acque della baia -
poi con curva
inviolata lasciano i nostri occhi,
spettrali come
vele che si incrociano
su qualche foglio
illustrato da archiviare;
fino a che gli
ascensori non ci spingono
fuori dal nostro
giorno...
Allora penso ai
cinema, i trucchi panoramici
di moltitudini
tese a una fulminea scena
mai del tutto
dischiusa e a cui sempre si accorre,
annunciata a altri
occhi sullo stesso schermo;
e tu attraverso il
porto, con passo d'argento
come se fosse il
sole a tenere il tuo passo, eppure un moto
mai consunto
lasciasse nella sua andatura,
come è implicito
il modo in cui la libertà ci tiene!
Da qualche sbocco
di metropolitana, da un abbaino oppure
da una cella,
un pazzo si
precipita ai tuoi parapetti, vi si sporge un attimo
con la camicia
rigonfia e schioccante, e una spiritosaggine
cade da quella
carovana ammutolita.
Giù a Wall
Street, dalla trave maestra il pomeriggio
si insinua nella
strada, un becco enorme
d'acetilene del
cielo; e tutto il pomeriggio
le gru volteggiano
spinte da una nuvola...
I tuoi cavi
respirano ancora il Nord Atlantico.
E oscura come il
cielo degli ebrei
ecco la tua
ricompensa... Quell'anonimo abbraccio che ci doni
non può
distruggerlo il tempo: tu dimostri a noi
una vibrante
grazia, un vibrante perdono.
Oh arpa e altare,
fuso dalla furia, (come poté la semplice
fatica allineare i
tuoi archi corali!)
soglia
terrificante del pegno del profeta,
tu preghiera di
paria e grido dell'amamte,
nuovamente
semafori che sfiorano il tuo rapido
ininterrotto
idioma, sospiro immacolato delle stelle,
e imperlano il tuo
corso – condensano l'eterno:
abbiamo visto la
notte sollevata, tenuta
stretta tra le tue
braccia. Attesi
presso i piloni e
sotto la tua ombra;
solo nel buio la
tua ombra è chiara.
Tutti i pacchi
infuocati della City ora sono disfatti,
e già la neve
sommerge un anno ferreo...
Oh, insonne come
il fiume sottostante,
tu che scavalchi
con un arco il mare
e la zolla
sognante delle praterie, slanciati
verso le nostre
bassezze, e qualche volta scendi,
e con la tua
curvatora presta un mito a Dio.
* Hart Crane, da
“Il ponte”, Guanda 1967, traduzione di Roberto Sanesi
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