Niente, la solita vita, allevo lucertole, e questo è tutto. Non
mi lamento, non bevo, non mangio, non vedo nessuno. Meglio di così. Nuvole
fiacche, molto sole di mezzogiorno, anche dopo mezzogiorno, arrostisce le
povere placche plastiche. Niente, come se avessi fatto tutto. Proprio tutto? Me
lo chiedo, passo il tempo. Il dottore non mi visita, deduco che non sto così
male, soggetto a disposizione, irrilevante clinicamente. Se piovesse, un
congiuntivo qui si declina al presente: non piove. Da te, invece? Ah. Niente,
liscio e riliscio la carabina. Non si finisce mai di lisciare. Meglio che
sparare. In tanti me lo chiedono, li vedo chinati a ingrandirmi. Faccio segno
che non ci sento. Ma ci sento. Altroché. Vento di corrente tra sala da pranzo e
porta della cucina. Basta chiuderla, fine di un abbozzo di maltempo. Niente, mi
arrampico sulla camicia a righe per rintracciare le due bretelle, valgo poco
come trapezista. Insistere? Insisto. Sto che è una meraviglia, seduto come
Andrea Olivieri da Monreale sulla punta del dispersore-parafulmine. Magliato e bimetallico
per il mio culo di casa. Fulmini per distogliermi dal mio meteo personale, né
frescanti né coloranti. Niente, me la rido. Lo debbo proprio dire; sto senza
fare niente. Forse sono, mi dico, ma non continuo la frase. Mi trovo abbastanza
antipatico, questo spiega molte cose. Cosa? Per esempio, e qui interrompo. Un
po' mi ha rotto aspettare, l'estate ancora o l'inverno ancora, le mezze
stagioni o le stagioni di mezzo. Che tempo c'è? E chi l'ha detto che. Niente
c'è, meglio non dirlo non c'è meglio di niente.
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