Una delle debolezze più
ingombranti (certo, non la più pericolosa di cui soffriamo) è che
immancabilmente ci immedesimiamo. Trattandosi di pietà verso i nostri simili - verso
chi è stato meno fortunato - è ancora legittimo che ci si cali nelle disgrazie
altrui, è un fatto naturale, ma noi proviamo compassione anche per cose lontanissime
delle quali non sappiamo nulla, o bene che vada molto poco: la vita degli animali. Diamo per scontato, a esempio,
e ce ne preoccupiamo al punto di avviare vere quanto discutibili campagne di
sensibilizzazione, che un pollo libero di razzolare in un’aia vivrebbe più
felicemente di uno costretto in batteria, e il che è certamente vero ma solo
per la nostra coscienza piena di doveri morali, incluso “anche” quello di preoccuparci dell’ambiente in cui viviamo
tentando di renderlo più umano. Ma il
pollo non conosce una condizione
migliore di quella che gli è capitata, non riesce a immaginare che questo
potrebbe essere vero: non concepisce niente oltre a quello che gli succede e
non pianifica il proprio futuro come invece siamo in grado di fare noi. Nessuno
è in grado di dimostrare che un pollo chiuso in una gabbia laddove viva accanto
a uno libero di beccare provi qualcosa come l’invidia, o aspiri alla libertà
del proprio vicino. Altrettanto impensabile è credere che un fagiano possa ritenersi
fortunato perché un cacciatore lo ha mancato l’antivigilia di Natale.
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