Una pulla di periferia.
Così l’ha chiamata. Non una pulla soltanto, una pulla e basta; una che risponde
a inequivocabili caratteristiche identificative non tanto dissimili -
nell’essere riconoscibili - da quelle che ci permettono di individuare
immediatamente una specie animale antipatica o una pianta nauseante, nel caso:
abitudini, gestualità, linguaggio, abbigliamento, oltre che una precoce, decisa e inevitabile disfatta fisica. Ma una pulla di
periferia. Così ha detto. E penso si riferisse al peggio: a un’immigrata di quella
professione che non riuscirà mai a raggiungere il centro della città, metafora
dell’appartenenza e delle marchette a 50, 70, e a volte anche a
100. Penso si riferisse al brutto odore che mandava il suo compagno. E alle
tartine che lei, feroce e soddisfatta, tirava in faccia agli ospiti.
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